Proverbi in dialetto bolognese a cura del Socio Porf. Francesco Piazzi
Conviviale del 13 luglio 2021
Nota dell’autore, Prof. Francesco Piazzi.
La trascrizione dei proverbi non avviene nella grafia scientifica, che li renderebbe più difficilmente leggibili, ma nella forma più semplice e immediata per un non linguista.
I pruverbi i en com i sécc dal paz: un tira cl èter (i proverbi sono come i secchi del pozzo, uno tira l’altro). Questo metaproverbio fa riferimento al corrispondersi e richiamarsi dei proverbi all’interno di una struttura, di un sistema où tout se tient, perché è un sistema culturale.
I pruverbi i én nèd prémma dal Vangelo (i proverbi sono nati prima del Vangelo). Sull’antichità si basa la loro auctoritas anonima e impersonale, che risale a quando? A Quand i ranunc i aveven la pirrocca (a quando i ranocchi avevano la parrucca)…
In un primo tempo si era pensato che questi incontri su “Bologna e i bolognesi” avvenissero in piazza S. Domenico, nel qual caso avremmo avuto davanti le arche dei glossatori del celebre Studium, frequentato perfino da Dante, che il volgare bolognese doveva averlo imparato bene. Infatti:
scriveva in volgare bolognese la sua prima composizione poetica: Il sonetto alla Garisenda;
riteneva che i bolognesi parlassero una lingua (che definiva lingua del seppa, dal congiuntivo di essere, come ancora nel dialetto moderno) più bella degli altri confinanti (pulcriori locutione loquentes) …
valutava le differenze di lessico e fonetica tra la lingua del Pratello e quella di Strada Maggiore.
Nell’Ateneo bolognese Dante studiava soprattutto il diritto, che ha Bologna, diversamente da Parigi, insegnava le astuzie di una giurisprudenza furbesca: “Bologna la grassa insegna a truffare le leggi e … del torto fa diritto”. Così nel Duecento il monaco francese Barthélemy ironizzava su quanti correvano a Bologna, la craisse Bouloigne, per apprendere la redditizia arte dell’avvocato. A Bologna si insegnava una giurisprudenza truffaldina … Da qui la diffidenza dei bolognesi, espressa nei proverbi, nei confronti degli avvocati, dei notai, dei lugulei in genere.
L’é méi un pondg in bocca a un gat che un cristian in man a un avuchèt (è meglio un topo in bocca a un gatto che un uomo in mano a un avvocato).
La lazz l’è fata pr i mincion (i furbi sanno sempre aggirare la legge). Un’affermazione che potrebbe essere sottoscritta da Renzo del Promessi Sposi.
Guerdet dai guazaboi di speziel (farmacisti) e dai etcetera etcetera di nudèr.
Il personaggio più rappresentativo del nesso tra dialetto e Studium è il dott. Balanzone. Storicamente, appartiene alla schiera dei “vecchi della Commedia dell’arte”, poi entra nel teatro dei burattini (che ebbe una vasta fioritura tra 800 e 900). In origine non è un medico, ma un dottore in legge: caricatura del dotto e tronfio leguleio bolognese. Vestito come gli avvocati o i professori alle lauree: toga nera (mantel, caparela), colletto e polsini bianchi, gran cappello.
Il suo stesso nome dimostra il nesso col diritto, infatti Balanzone (“nome parlante”) deriva dal bolognese balanzan, ovvero bilancione, bilancia, simbolo della Legge, del
Diritto.
La connessione di bilanza con la giustizia è chiara in gioddiz dla bilanza l’ago della bilancia.
La bilanza gratadaura è la bilancia che ruba, simbolo di un diritto truffaldino. Ster in bilanza vuol dire essere in dubbio.
Il dott. Balanzone è:
– logorroico: imbarlucan da barloc “piccola usura, guadagno illecito”
– verboso: ciacaran, bacajan, dardela, sbraghiran, parpadlan (cfr. parpadèla “pappardella, tiritera noiosa”, ma la parpadèla è un tipo di pasta tagliata lunga e larga)
– pignolo: essere pignolo: zarcher l’ov con du torrel, fèr la ponta ai spen
– cavilloso (cfr. l’Azzeccagarbugli manzoniano, cavillare: (a)cater di rampén)
– trombone, sempre pronto a vantarsi dei suoi titoli inventati (vanitaus, stimlen,
galavran dali èli dor “calabrone dalle ali d’oro”).
Dice di conoscere ogni campo della scienza umana: diritto e legge prima di tutto, ma anche medicina, storia, astrologia, filosofia …
Nel Settecento ci fu una fioritura di “Balanzonate”, un genere letterario di cui Fausto Carpàni ci offre un saggio in questo passo, in cui Balanzone appare in veste di medico, mentre reclamizza il proprio studio medico.
Vgni pûr danter con fidózzia, la mi zant. Quast l é al templum dla salut, al santuèri dal ban viver, la surzri (sorgente) ed tótt i rimedi par stèr ban, l’ufizénna dal ban durmir. In dau parol: l’é la spziari (farmacia) dal dutaur Balanzan Bunbèrda e Canan (anche noi ricorriamo a metafore balistiche per indicare chi le ha sparate grosse), ch’a san pò mé, mèdic ezelentéssum, archiètra ed tótt i rà dl’orbe terracqueo, guaridaur suprafén sanza dulaur, luminèri in utroque scientiarum, eczetera eczetera.
Il rapporto del dialetto col diritto spiega le molte espressioni, presenti nei proverbi, indicanti giuramento, malleveria, garanzia della veridicità di quanto affermo o il risarcimento se non è vero quello che dico o se il patto non viene osservato.
Si noti che il rapporto tra dialetto e diritto è evidente nei contratti, dove i notai registrano le testimonianze degli attori di una vendita, di una controversia, ecc. Si pensi al notissimo Placito Cassinese del 960: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parti Sancti Benedicti …
In un linguaggio giuridico bolognese è il famoso Sonetto alla Garisenda. Dante sta contemplando la Garisenda e non vede passare una bellissima ragazza. Ritiene gli occhi responsabili di questa perdita e intenta loro un’azione legale.
I suoi occhi solo accecandosi potranno risarcirlo della perdita:
No me poriano zamai far emenda/ de lor gran fallo gl’ocli mei,/ set elli non s’acecaser
Altre espressioni simili nei proverbi di garanzia bolognesi:
ch’ a pêrda i ûc o la véssta … e altri simili
Nel seguente giuramento solenne il giurante offre come garanzia di verità l’esplosione del proprio ventre.
zura zura, / panza dura, / zura zura/ panza infié/ Ca mora in sta bulé
(“Che io muoia in questo punto”)
Il giurante poteva anche augurarsi un azzidént sec, in pratica un ictus. Ma doveva fare attenzione ad augurarsi o ad augurare accidenti, perché
I azidént van dri a la mura (fanno il giro delle mura) e i taurnen indri a chi i augùra.
Sola “vaccinata” contro gli azidént pare essere la zia. Infatti è comune l’esclamazione
Azidant a la zia!
La più suggestiva di queste espressioni di garanzia è la seguente:
Brisa vaira gallénna bècum (se non è vero, gallina beccami)
Tra parentesi si può osservare come il protagonismo degli animali nelle metafore dei proverbi è comune alla fiaba, un genere letterario “povero” molto vicino a quello dei proverbi (si pensi alle favole di Fedro). Il motivo è ovvio. I proverbi sono forme sapienziali spesso ironiche che, riferite a persone, potrebbero provocare qualche risentimento in chi si sente il bersaglio polemico di una condanna o di una critica.
Tornando alla gallina, perché la gallina? Certo si espone a un rischio moderato chi accetta di farsi beccare da una gallina nel caso di una propria inadempienza. Ben più cogente risulterebbe la formula: brisa vaira, condor becum. E poi la gallina è l’animale più a portata di mano, presente nell’aia e quindi sempre disponibile a raffronti metaforici. Nell’immaginario animale bolognese sarebbe difficile incontrare l’ornitorinco… Inoltre la gallina è un animale tradizionalmente di poco cervello (l’ha la testa d’una galenna, non è certo un complimento) e allora? Forse si vuol sostenere che quello che ho detto è talmente vero e incontestabile, che perfino una gallina lo capirebbe (ragionamento a forziori). Altrimenti la gallina riprende il suo status di animale da inseguire per tirarle il collo e mettere nella pentola (si badi che in passato la gallina aveva un maggiore prestigio gastronomico). Di qui la celebre canzone che il mondo ci invidia ciapa la galleina, ossessione dei balneari della Romagna, un testo la cui qualità letteraria tocca il suo vertice nella strofa: ciapa la galleina, ciapa la galleina cocco cocco de. E fin qui, il testo parrebbe anche bolognese e noi bolognesi saremmo tentati di metterci la bandierina sopra e intestarci un’opera così prestigiosa. Ma poi il testo prende una piega meno “raffinata”, rivelando l’origine romagnola …
Ancora sulle galline.
Al galèn al fan l’ov pr al bèc (una specie di bancomat). Tu dai loro al furminton, cioè il granturco, e quelle per la stessa apertura ti danno l’uovo. Una curiosità: il cornflakes si dice furminton punpé (Lepri).
Al puler al va a cufett se la galenna canta e al gal sta zèt (il pollaio va a capofitto se la gallina canta e il gallo sta zitto, cioè in casa deve comandare l’uomo e non la donna). È una metafora della famiglia patriarcale contadina. Ma vedremo che le cose non stanno proprio così e chi comanda in realtà è la donna.
Quand un puvràtt magna una galénna, o ch’l é amalè lo o ch’l’ è amalé la galenna (un povero poteva mangiare carne di gallina solo se era ammalato o se la gallina moriva di malattia)
L’é méi stasira una galenna che un ov dmatenna. È la versione bolognese del carpe diem. Certo non aveva letto Orazio, né visto L’attimo fuggente chi ha creato questo proverbio. Ma come nascono i proverbi? C’è chi dice per poligenesi, cioè ciascun proverbio indipendentemente dagli altri senza una forma di comunicazione interculturale. Guicciardini, Ricordi C 12: “Quasi tutti e’ medesimi proverbi o simili, benché con diverse parole, si trovano in ogni nazione, e la ragione è che i proverbi nascono dalla esperienza o dalla vera osservazione delle cose, le quali in ogni luogo sono le medesime o simili)”.
Ma allora non ci sarebbe una trasmissione diretta tra il lat. In cauda venenum e Int la co ai sta al vlaggn? E tra Lupus in fabula e Zant numiné, o par vi o par stré?
Quest’ultimo proverbio è sempre riferito a persona di cui si sta parlando e che improvvisamente compare. La spiegazione sta in un tabu ancora vivo: nominare qualcunoequivale a evocarlo. Gregorio Magno racconta di un prete che dice al servo, insolentendolo: “vieni diavolo, slacciami le scarpe” e i lacci si sciolgono da soli con incredibile velocità, perché il diavolo, sentendosi chiamare, era intervenuto. E può non esserci una relazione diretta tra ingl. If my grandmother had weels, she vould be a wagon e Se mi nona l’aveva al rod l’era un tranvail ?
Passiamo ora al ragno.
Ragn porta guadagn (fortuna), furmiga briga (rogne)
Il ragno è in particolare simbolo di creatività e rinvia al mito di Aracne, l’abilissima tessitrice di cui Minerva punisce la superbia trasformandola in ragno (Ovidio, Metamorfosi 1-145) e condannandola così a tessere per sempre.
Dal mèl fati ai n vén anc ai ragn (delle cose eseguite male ne vengono anche ai ragni = non tutte le ciambelle riescono col buco o quandoquidem dormitat Omerus). Qui ancora il ragno come esecutore di opere pregiate.
Se al ragn t amazaré, poco furtonna t’arè (se il ragno ammazzerai, poca fortuna avrai). Parrebbe che il ragno godesse di uno status analogo a quelle del grillo parlante di Pinocchio. Il divieto di ammazzarlo è connesso alla qualità di animale totem.
Ora, i gatti e i cani.
Quand la gata la n ariva brisa d’aura ed plucher al lerd, la dis ch’l à amaur ed ranz (quando la gatta non riesce a piluccare il lardo, dice che ha sapore di rancido, come nella famosa favola della volpe e l’uva). Amaur: amore, sapore, aroma. Al vin l’a l’amaur ed stupai (sa di tappo). Da amore = inclinazione, tendenza (come in amore per lo studio). Tant va la gata al lèrd ch’la i lasa al pail (pelo = zampino).
Forse il padrone ha piazzato una trappola per topi, che la gatta fa scattare e lascia i propri peli. Ma c’è chi ha interpretato il proverbio come un esempio di curiosità punita. Come nell’ingl. curiosity killed the cat, per scoraggiare qualcuno dal fare troppe domande.
Quand al gat pasa l’uraccia, al piov (quando il gatto passa con la zampa sopra l’orecchio, piove). Il gatto qui serve per le previsioni del tempo.
E ora un adynaton , la figura retorica dell’impossibile.
As vad di can cagher di viulen, al bel l’è che po’ i sannen. Sembra che quanto è detto nella prima parte sia una cosa normale. L’eccezionalità starebbe solo nella seconda parte, che narra della surreale performance strumentale dei cani.
Ed ora alcuni proverbi sulla donna, che nella cultura agricola emiliana rivela una nobiltà e un prestigio sociale altissimi.
Quand che l’arzdora la va a la campâgna la perd piò che la ‘n guadâgna (Quando la massaia va a lavorare nei campi è un danno per la casa. ). L’arzdora, etimologicamente la “reggitrice”, deve stare in casa, ma non nella prospettiva antifemminista della donna domiseda latina, ma perché sta nella “cabina di regia”. A lei spettano non solo e non tanto i compiti esecutivi della casa, ma su di lei grava il “carico mentale”, ovvero tutta la gestione e l’organizzazione dell’azienda domestica.
La bona dona fa la cà, la mata la la dsfà (la buona donna fa la buona casa, la matta la disfa)
Quand nas una dona al zighen anc al furmig (quando nasce una donna piangono anche le formiche, perché la donna di casa non sciupa nemmeno le briciole)
L’omen al pèr al padron dla cà, mo l’é la dona ch’la fa (l’uomo sembra essere il padrone della casa, ma è la donna che comanda).
Dòna afabil, bèl suris, l’é un scamploz ed paradis (donna affabile con bel sorriso è uno scampolo – rappresentazione in scala, modello analogico – di paradiso). È un esempio di “Dolce stil novo” bolognese, movimento letterario che del resto, per espressa e reiterata ammissione di Dante, nasce a Bologna: qui pochi anni prima di Dante era vissuto Guinizzelli, il vero fondatore del movimento.
E ora qualche proverbio su Dio e sui Santi.
Al dzon ed nadèl, can e gat i al tènnen fer (lo devono fare tutti)
Al mannd an tén cant d ignint, mo Dio d incosa (la gente non tiene conto di niente, ma Dio di tutto). Il dogma dell’onniscenza divina Dio guèrda al cor (Dio guarda alle intenzioni). Ricorda l’Omnia munda mundis “Tutto è puro per i puri di cuore”: così padre Cristoforo zittisce il portinaio del convento di Pescarenico, fra Fazio, che ha qualche perplessità per quegli ospiti serali inaspettati, tra i quali anche delle donne. Cfr. Epist. di S. Paolo a Tito 1,15 πάντα καθαρὰ τοῖς καθαροῖς (καθαρός puro, incontaminato da cui il nostro catarsi)
Dio s al dà, Dio s al tol (bisogna rassegnarsi al volere di Dio)
Bisaggna tor quall ch’ Dio manda (bisogna accettare tutto quello che Dio manda)
Dio manda al fradd second i pagn (il freddo e il caldo secondo gli abiti, Dio vede Dio provvede)
Chi n dà a Dio dà al dièvel (chi non fa il bene fa il male).
Chi seruv Dio l à un ban padron (detto forse da mezzadri, che ritenevano di non avere un buon padrone, pensate al film L’albero degli zoccoli)
Ognon par sé e Dio par tott (Ognuno per se Dio per tutti)
Guèrdet dai sgnè da Dio (guardati dai segnati da Dio). A Roma si credeva che le persone afflitte da qualche deformità fisica (malesignati “segnati a dito”) emanino un influsso sfavorevole, attraverso una occhiata malevola (malo oculo).
Ora i santi.
San Zvan l è al sant dal strèi. Nella notte di San Giovanni – 24 giugno – le streghe presso il Grande Noce dell’Eremo di Tizzano celebrano il Sabba. Le erbe di San Giovanni (aglio, artemisia, iperico, lavanda, ruta e verbena), appese alle porte, servono a tenerle lontane, poi sono bruciate e vengono raccolte le nuove. La ricorrenza si lega al solstizio d’estate, quando tutte le erbe e le piante sarebbero intrise di una potenza generatrice nuova (le noci sono migliori, per fare il nocino). È un rito apotropaico per proteggere i campi.
Cosa c’entra S. Giovanni con le streghe? Niente. L’adozione di un santo non si lega a una particolare sua attitudine nota dalla sua biografia. La coincidenza tra un evento e un santo la decide il calendario.
Di San Martino non risulta qualche sua competenza enologica. La connessione al vino è dettata dal calendario, che ne celebra la morte avvenuta l’11 novembre (giorno dei suoi funerali avvenuti nell’odierna Tours, nel 397). Ed è questo anche il periodo in cui i mosti sono ormai diventati vini novelli e possono essere degustati.
Par San Marten al mast è vén (per San Martino [11 novembre] il mosto è diventato vino)
La sira ed San Marten s’imbariega grand e cén (assaggiando il vino nuovo)
Chi an zuga par nadèl, chi an bala par caranvel, chi an s imbariega par San Martén, n arà mai ban fén (chi non gioca per natale, non balla a carnevale, non si ubriaca per San Martino [11 novembre], non farà mai buona fine). Un malinconico invito o godere delle poche gioie che ci riserva la vita (un carpe diem con lo stesso invito a bene il vino, il più antico ansiolitico del mondo, come anche nell’ode oraziana: vina liques … ).
Stessa compresenza di invito a gioire e sentimento dell’effimero dell’esistenza, nella celebre lirica S. Martino di Carducci.
L’estèd ed San Martén dura tri dé e un puctén (il bel tempo di novembre dura poco più di tre giorni). Carattere effimero e illusorio di questa estate. Come nella splendida lirica Novembre di Pascoli, dove l’estate di S. Martino, dopo una prima illusione di rinascita della natura (Gèmmea l’aria, il sole così chiaro/ che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,/e del prunalbo l’odorino amaro/ senti nel cuore…), si rivela per quello che è: l’estate, fredda, dei morti.
Altri santi si legano a precise operazioni nella vita nei campi e a vari momenti dell’avvicendarsi delle stagioni.
Sant Antòni dala bèrba bianca, s’ai è la naiv al pan an manca (Sant’Antonio dalla barba bianca [17 gennaio] se c’è la neve il pane non manca, in it. sotto la neve, pane)
Al dè d San Siman, chèva i bu d’int al timan e métt la vanga int al bastan (il giorno di San Simone [28 ottobre] leva i buoi dal timone dell’aratro, e metti la vanga nel manico
= smetti di arare e comincia a vangare).